Dossier n. 110/2005 - Domanda di care domiciliare e donne migranti. Indagine sul fenomeno delle badanti in Emilia-Romagna
- Descrizione/Abstract:
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Il ricorso, da parte degli anziani non autosufficienti e delle loro famiglie, ai servizi individuali resi a domicilio da donne straniere è un fenomeno che ha assunto una rilevanza ampia negli ultimi anni. Il fenomeno è per certi aspetti inedito sia sotto il profilo delle caratteristiche di un’offerta di lavoro che evidenzia significativi cambiamenti nella composizione demografica e nella nazionalità di provenienza, sia per la destinazione occupazionale dei flussi migratori nella recente storia dell’immigrazione italiana.
L’incremento di flussi migratori da parte di donne, provenienti prevalentemente dai paesi dell’Europa orientale, che trovano uno sbocco occupazionale nel lavoro di cura, infatti, non solo ha contribuito a ridefinire la complessa realtà dell’immigrazione all’interno del mercato del lavoro nella società italiana, ma al contempo ha evidenziato un significativo cambiamento nella domanda di forza di lavoro.
Tale domanda non è infatti esclusivamente sostenuta dai bisogni di lavoro della sfera produttiva (imprese) ma anche dal crescere dei bisogni connessi alla sfera della riproduzione sociale (famiglie).
Questa domanda di lavoro di cura da parte delle famiglie, se da un lato sconta i bisogni di una società che ha sperimentato un rapido invecchiamento della popolazione, dall’altro riflette le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato il ruolo dell’istituzione famiglia nell’assetto del sistema di welfare diffuso in Italia.
Le ricerche sull’immigrazione italiana hanno infatti evidenziato che il fenomeno del ricorso da parte delle famiglie al lavoro di cura reso da donne straniere ha interessato prima, in modo circoscritto, le regioni meridionali e successivamente, in modo assai diffuso, le regioni del centro nord. Tuttavia, vi sono condizioni diverse alla base di questo processo: se si può ipotizzare che nel Mezzogiorno il fenomeno è stato alimentato dalla storica fragilità dei sistemi locali di protezione sociale (che, come è noto, si caratterizzano per una carenza strutturale di servizi socio-assistenziali, in presenza di forti inefficienze del sistema sanitario, e per una netta prevalenza di trasferimenti monetari), nelle regioni del centro nord invece è stato sostenuto da una significativa spinta della domanda, alimentata dall’invecchiamento della popolazione, dall’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e dai mutamenti nelle strutture familiari.
Questa spinta è stata particolarmente incisiva in Emilia-Romagna dove la domanda di lavoro di cura, stimata sui bisogni di assistenza degli anziani con livelli di non autosufficienza tali da essere costretti a vivere confinati nella propria abitazione[1], fornisce una dimensione significativa della potenziale estensione del mercato dei servizi privati individuali di cura, che si approssima a circa 30.000 addetti. Non si sa in che misura questa domanda sia effettivamente sostenuta dal lavoro di cura delle cosiddette badanti[2]: in ogni caso, si tratta di una dimensione rilevante.
Se si considera che fra le regioni italiane l’Emilia-Romagna ha un sistema di protezione territoriale (pubblico e privato profit e non profit) articolato e diffuso in termini di strutture residenziali e di servizi domiciliari, che complessivamente occupano circa 21.000 addetti, la diffusione di questa tipologia di servizio dà un’idea di come si è andato ridistribuendo il lavoro di cura per gli anziani non autosufficienti fra il sistema delle famiglie, il sistema di protezione regionale e il mercato.
Il presente Dossier "Domanda di care domiciliare e donne migranti" è stato redatto sulle basi dell’indagine “L’offerta individuale dei servizi di care domiciliare: il fenomeno delle badanti”, realizzata nel 2003 nell’ambito del Progetto “Famiglie, lavoro di cura e anziani non autosufficienti in Emilia-Romagna”. Con questa indagine ci si è posto l’obiettivo di analizzare le caratteristiche della domanda degli anziani non autosufficienti e delle loro famiglie e la specificità di questo segmento del mercato del lavoro di cura alimentato da donne migranti. La ricerca è stata condotta mediante interviste in profondità, realizzate sulla base di questionari semistrutturati, che richiedevano colloqui di circa due ore. Le interviste sono state rivolte a:
- un gruppo di 26 famiglie con anziani non autosufficienti che ricorrono a servizi privati individuali resi da donne straniere. Le interviste rivolte a questo gruppo sono state orientate a:
- identificare le caratteristiche dell’anziano e del suo responsabile di cura;
- individuare le diverse forme di sostegno assistenziale;
ricostruire il processo decisionale che ha condotto la famiglia a ricorrere alla cosiddetta badante; - definire le relazioni di scambio in termini di contenuti della prestazione e delle componenti, monetarie e non, della remunerazione dell’assistente familiare;
- un gruppo di 37 assistenti familiari. Le interviste a questo gruppo hanno cercato di ricostruire:
- il profilo dell’assistente familiare in termini di genere, età, stato civile, nazionalità e livello di istruzione;
- le motivazioni a lasciare il paese di origine e la situazione familiare al momento della partenza;
- i progetti e i percorsi migratori;
- i canali di accesso per inserirsi nel mercato del lavoro come badante;
- i contenuti della contrattazione;
- le caratteristiche dell’impiego - tempo pieno/part time, regolare/irregolare - presso una o più famiglie.
Entrambi i gruppi intervistati sono stati selezionati in modo casuale nell’ambito di tre specifiche aree geografiche: la realtà urbana, il piccolo comune di montagna e il comune di media dimensione della pianura.
Inoltre, per individuare i canali di accesso alla scelta e al contatto con le famiglie e con le assistenti familiari, è stato costituito un gruppo di lavoro composto da diversi soggetti che a vario titolo sono portatori di specifiche conoscenze all’interno delle realtà territoriali di competenza. Il gruppo ha partecipato alla raccolta dei dati e delle informazioni e all’elaborazione dei contenuti delle interviste; in particolare, il suo contributo è stato assai prezioso per ricostruire i diversi canali di intermediazione di questo specifico segmento del mercato del lavoro di cura.
Per quanto riguarda il primo gruppo di interviste, l’assistito - con una sola eccezione - è un anziano di età superiore ai 65 anni, con una netta maggioranza (17 casi su 26) di ultraottantacinquenni. Si tratta in prevalenza di donne (20 su 26 casi), per lo più vedove (22 su 26). Normalmente si tratta di soggetti che vivono da soli, in una casa di proprietà o in uso gratuito, ma che sono stati dichiarati del tutto (14) o parzialmente (10) non autosufficienti.
Relativamente alle ultime occupazioni praticate, alle fonti di reddito attuali e al livello di istruzione, emerge un gruppo relativamente omogeneo sotto il profilo sociologico:
- è composto, senza distinzioni di genere, da ex lavoratori, dipendenti o - in minoranza - autonomi (le ex casalinghe sono soltanto 3);
- soltanto due sono in possesso di diploma contro 21 con licenza elementare e 3 senza alcun titolo di studio;
- la fonte di reddito attuale è sostanzialmente rappresentata dalla pensione, integrata per alcuni (15) da qualche tipo di indennità o sussidio, oppure da aiuti di familiari e, in un caso, dalla rendita derivante da immobili. Va però ricordato che, come si è visto, più della metà vive in una casa in proprietà, frutto dei risparmi realizzati nel corso della vita lavorativa.
Gli assistiti contattati sembrano essere nell’insieme abbastanza rappresentativi di quella generazione di lavoratori appartenenti a uno strato sociale al confine tra la classe operaia tradizionale e la piccola borghesia degli artigiani e dei commercianti dettaglianti, attivi nel corso della loro vita in un territorio economicamente caratterizzato da un tessuto produttivo e di servizi articolato e dinamico.
Le decisioni volte ad assicurare agli anziani l’assistenza di cui necessitano, così come tutte le scelte che a ciò sono concretamente connesse, sono risultate in realtà prese non tanto da loro stessi quanto dai loro familiari - in particolare da figlie e figli - e non sempre con il consenso dei diretti interessati.
Dalle interviste ai soggetti assistiti e alle loro famiglie, emerge un primo aspetto che va sottolineato e cioè che i soggetti coinvolti nel rapporto di cura non sono due, l’assistito e la sua badante, bensì tre: l’anziano assistito, il suo responsabile di cura e l’assistente familiare.
Il responsabile di cura, di regola un familiare (in 20 casi su 26 un figlio o una figlia), è la persona che si è occupata della ricerca della badante, che ha contrattato con lei le condizioni di assunzione e che esercita una funzione di supervisione, organizzazione e controllo delle prestazioni della lavoratrice assunta.
Il confronto delle professioni e dei titoli di studio dei responsabili di cura con quelli degli assistiti sembra mostrare evidenti cambiamenti - intercorsi col passaggio generazionale - in termini di aumento dei diplomati, di comparsa di laureati e di aumento di occupazioni dipendenti non manuali. Tuttavia tale confronto, se collocato nel contesto generale dei fenomeni dello stesso ordine verificatosi nella società nel medesimo periodo, non sembra testimoniare un particolare salto nella collocazione sociale delle famiglie in questione nel contesto della società locale nella quale continuano a essere inserite.
Dalle interviste in profondità rivolte ai responsabili di cura emerge in modo netto che davanti alla condizione problematica di un soggetto anziano, la prima opzione è sempre quella di attivare le risorse interne alla famiglia. Alle attività di cura rivolte a un anziano non autosufficiente viene infatti attribuita una forte valenza affettiva: il lavoro di cura non viene cioè percepito come una semplice esecuzione di mansioni, ma se ne evidenziano gli aspetti relazionali connessi al contatto quotidiano, all’intimità, alla convivenza, allo scambio comunicativo.
Le testimonianze raccolte evidenziano tuttavia anche la gravosità dei compiti che i caregiver familiari si trovano a dovere sostenere e dunque anche la grande difficoltà a conciliare le esigenze dell’anziano, quelle della famiglia propria e, quando c’è, quelle del lavoro retribuito.
Quando l’anziano presenta forme di non autosufficienza gravi, la famiglia si trova davanti a un problema di sostenibilità del lavoro di cura e inizia a vagliare le possibilità di ricercare una qualche forma di aiuto all’esterno della famiglia. Questa decisione è vissuta sovente in modo conflittuale: da una parte permane la volontà di prendersi cura dell’anziano fragile, dall’altra i costi che questo comporta in termini di tempo, fatica, difficoltà a tenere insieme le relazioni familiari, vengono sempre più percepiti come insostenibili. Il processo decisionale in alcuni casi è lungo e viene maturato gradualmente, in altri casi è conseguenza di un evento traumatico intervenuto a distruggere gli equilibri precedentemente creati. In ogni caso il momento in cui la famiglia prende coscienza dell’inadeguatezza delle possibilità di intervento diretto di cui dispone è delicato e destabilizzante, e non di rado comporta un certo livello di conflittualità tra i soggetti coinvolti.
Le famiglie intervistate, davanti alla necessità di trovare un appoggio esterno per la cura dell’anziano non autosufficiente, hanno deciso di non ricoverare l’anziano in una struttura residenziale, principalmente per due ragioni:
- una prima ragione risiede nella volontà di operare per il benessere dell’anziano, che viene percepito come strettamente legato alla possibilità di tenere l’anziano a casa sua;
- la seconda motivazione è relativa alla sostenibilità dei costi di una struttura residenziale, che vengono considerati eccessivamente gravosi.
Per quanto riguarda il secondo gruppo di interviste, la ricerca ha coinvolto 37 soggetti (36 donne e 1 uomo) impiegati come badanti presso famiglie emiliano-romagnole. Malgrado non si tratti di un campione statisticamente rappresentativo, emergono con chiarezza alcune caratteristiche distintive:
- la maggior parte degli intervistati proviene dai paesi dell’Est europeo (27) e solo una minoranza da altri paesi (7 da paesi africani, con prevalenza del Marocco, una cubana e una filippina);
- sono di recente immigrazione e la presenza in Italia per la maggioranza delle intervistate non supera l’anno (20 persone), ma non mancano i casi in cui è compresa tra uno e tre anni (12);
- le età sono variabili, ma il gruppo più numeroso (16 soggetti) si concentra nella fascia di età compresa tra i 35 e i 44 anni;
- i loro titoli di studio sono in genere piuttosto elevati (19 diplomi e 9 lauree);
- infine, per la maggior parte si tratta di persone che hanno una famiglia propria, rimasta al paese di origine (22 sono coniugate e 23 hanno figli). Dall’analisi della composizione delle famiglie lasciate in patria risulta chiaro che a ciascuna badante fa riferimento un certo numero di persone, la cui qualità di vita dipende, in parte significativa o del tutto, dal reddito da lei prodotto e trasferito a loro quasi per intero come rimessa.
Per la maggioranza delle intervistate il luogo di lavoro è in ambiente urbano (19) e tra queste si trovano la maggioranza delle europee (tra cui tutte le polacche), la filippina, la cubana e l’africana del Burundi. In centri minori di pianura sono invece impiegate tutte le intervistate di nazionalità maghrebina e un gruppo minoritario di europee (in tutto 11), mentre è composto soltanto di moldave e ucraine il gruppetto di sette che lavora in località montane.
I canali attraverso i quali sono state contattate per l’impiego sono prevalentemente informali: sedici attraverso parenti o conoscenti della famiglia presso cui lavorano; sei attraverso la Caritas o altre associazioni; quattro attraverso sindacati, assistenti sociali, amiche straniere, parrocchie.
Quanto alle tipologie dei contratti di lavoro, nella maggioranza dei casi rilevati il rapporto è full time (22 casi), ma è relativamente consistente anche il gruppo delle part timer (15 casi); ventiquattro dichiarano di essere in possesso di un contratto regolare, tre di non essere in regola, ma ben dieci evitano l’argomento.
In netta maggioranza abitano con l’assistito o comunque nell’abitazione della famiglia, ovvero sono disponibili ventiquattrore su ventiquattro - salvo il giorno o le mezze giornate di libera uscita - e comunque tutte le notti (30 casi). Cinque dichiarano di abitare con altre persone - che di norma significa essere ospitate presso comunità religiose o simili - e soltanto due (tra cui ricompare l’unico maschio) in casa propria.
Dalle interviste effettuate risulta che il compenso monetario effettivo di un’assistente familiare straniera convivente con l’anziano è mediamente compreso tra 700-800 Euro mensili. Molto spesso il rapporto lavorativo è di tipo semi-sommerso: la badante viene cioè regolarmente assunta con un contratto lavorativo che prevede un numero di ore settimanali o mensili decisamente inferiore a quelle effettivamente prestate.
Una parte importante delle interviste è stata dedicata all’approfondimento del tipo di relazione che si instaura tra la badante e la famiglia presso la quale lavora. È emerso chiaramente che si tratta di un rapporto di lavoro non riconducibile esclusivamente alla corrispondenza tra salario e prestazione, in primo luogo perché alcuni elementi fondamentali della contrattazione riguardano aspetti non monetari della relazione di scambio: il vitto e soprattutto l’alloggio, messi a disposizione dalle famiglie per la badante straniera, costituiscono infatti un elemento fondamentale del contratto. Poiché l’anziano sovente vive in un’abitazione sovradimensionata rispetto alle sue esigenze, l’offerta di un alloggio per la badante non costituisce per le famiglie un costo percepito come gravoso, ma rappresenta un salario aggiuntivo che consente alle famiglie un minore esborso monetario per il compenso della badante; dall’altra parte, questo permette alla badante di risolvere il proprio problema abitativo che, se dovesse essere affrontato sul mercato, avrebbe costi proibitivi e non compatibili con le finalità stesse del suo progetto migratorio. Inoltre, l’accoglienza in famiglia costituisce un importante punto di riferimento per l’immigrata che trova in essa un contesto in cui inserirsi e, soprattutto quando l’immigrata è da poco in Italia e può trovarsi in una condizione di irregolarità, la protegge e l’aiuta a orientarsi in un paese a lei straniero.
Sull’altro versante della relazione di scambio, la badante si rende disponibile non solo alla coabitazione con l’anziano, ma anche a essere presente accanto a lui giorno e notte, affiancando alle sue mansioni dirette di cura una sorveglianza costante, lavorando di fatto molto più di quanto non sia previsto nel contratto formale di lavoro.
Si può quindi parlare di una situazione di reciproco vantaggio che consente un adattamento tra famiglia da un lato e badante dall’altro, un adattamento che non viene predefinito una volta per tutte durante la contrattazione, ma che è continuamente in itinere.
Due sono gli aspetti di questa relazione di scambio da tenere particolarmente in considerazione: in primo luogo si tratta di una contrattazione privata tra i soggetti coinvolti, in buona parte al di fuori della normale regolamentazione dei rapporti di lavoro, che pone inevitabilmente dei problemi per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti dell’anziano non autosufficiente e della lavoratrice badante. In secondo luogo questa forma di adattamento e di reciproco vantaggio è resa possibile soprattutto dal fatto che il progetto migratorio di queste donne non è finalizzato a un inserimento definitivo in Italia, ma è vissuto come una situazione temporanea in cui l’obiettivo è massimizzare il reddito da inviare alla propria famiglia, minimizzando i costi economici del mantenimento in un paese straniero.
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[1] La domanda potenziale di lavoro di cura per gli anziani non autosufficienti è stata stimata sui bisogni continuativi di assistenza per livelli di disabilità. Per un’analisi dettagliata si rimanda al rapporto La sostenibilità del lavoro di cura: famiglie e anziani non autosufficienti in Emilia-Romagna, pubblicato nella collana Dossier dell’Agenzia sanitaria regionale (n. 106).
[2] In Emilia-Romagna i lavoratori domestici iscritti all’INPS sono in totale 15.613 (dato 2001), di cui il 91% donne e poco meno della metà - 47,6% - stranieri. A questa porzione di mercato già regolare si può aggiungere la quota di 26.000 lavoratrici e lavoratori domestici stranieri che hanno presentato domanda di regolarizzazione nel 2002. Tuttavia, da queste informazioni sul lato dell’offerta non è possibile distinguere i lavoratori che prestano lavoro a domicilio per gli anziani non autosufficienti da quelli che invece svolgono attività di collaborazione domestica presso famiglie che non hanno a carico anziani non autosufficienti. Inoltre, anche dopo l’azione di regolarizzazione, sicuramente permane una quota ancora importante di lavoro sommerso. - un gruppo di 26 famiglie con anziani non autosufficienti che ricorrono a servizi privati individuali resi da donne straniere. Le interviste rivolte a questo gruppo sono state orientate a:
- Data di pubblicazione:
- 30/06/2005
- Tipo di pubblicazione:
- rapporti, linee guida, documenti tecnici
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